Lettera ad un amico

SUL PROPRIO SOGGIORNO A STANS

LA «LETTERA» DI PESTALOZZI SUL PROPRIO SOGGIORNO A STANS

Questa succinta e incisiva esposizione di uno degli esperimenti edu-cativi più commoventi e inebrianti di cui è conservata memoria, è forse lo scritto più significativo e originale di Pestalozzi. Esso offre di lui un’immagine molto più schietta e fedele di quella che sogliono porgere i suoi scritti maggiori in cui i tratti salienti della sua personalità così ricca e poliedrica sono spesso affogati in uno stile diffuso e farraginoso e qual-che volta stucchevolmente querimonioso, e le sue stesse più pregnanti intuizioni solo di rado riescono ad articolarsi in idee chiare e coerenti. Qui Pestalozzi balza vivo in tutta la ricchezza della sua generosa umanità e la maggior parte delle sue idee fondamentali, faticosamente elaborate con preoccupazioni sistematiche in altri suoi scritti, si possono cogliere al vivo, nel processo della loro prima germinazione. E le stesse idee ch’egli aveva già dibattuto altrove (per es. nella seconda parte di Leonardo e Geltrude) a Stans sono state calate nella palpitante e ribelle realtà e sono riemerse chiarite e rinvigorite. Avevano ricevuto il crisma benedetto dell’esperienza vissuta!

L’immediatezza dell’osservazione, la prossimità delle prove af-frontate, la stessa mancanza totale di preoccupazioni letterarie e filosofi-che, le quali appesantiscono altre sue opere, costituiscono il pregio mag-giore di questa narrazione disadorna e casalinga, stesa subito dopo l’esperimento, sgorgata direttamente da un cuore esacerbato e pur felice, da un’esperienza vissuta e sofferta con rara intensità e con tale dedizione e schiettezza religiosa da avere pochi riscontri nella storia dell’educazione.

Dopo una quasi ventennale forzata assenza dalla scuola in seguito al clamoroso tracollo dell’esperimento di Neuhof, l’invasione della Svizzera da parte degli eserciti repubblicani di Francia aveva posto al solitario Pestalozzi l’occasione di ritornare al suo amore prediletto, l’educazione dei poveri e degli orfani, in cui gli è sempre parso che rifulgesse più viva l’immagine di Dio.

Rifiutata la direzione di un istituto magistrale offertagli dal- l’amico Alberto Stapfer, chiamato dalla Repubblica elvetica instaurata per impulso della Francia, al Ministero delle Arti e delle Scienze, accettò invece di dedicarsi a Stans all’educazione degli orfani dei contadini del Nidwald trucidati dall’esercito invasore contro il quale erano insorti con le armi in pugno.
 
Il compito era arduo per vari motivi, cui il Pestalozzi accenna nelle pagine che seguono, e per uno specialmente, di cui egli, nel suo candore, non ha colto tutta la portata, la resistenza passiva e sorda dell’ambiente, e in particolar modo delle autorità civili e religiose, incapaci e non disposte, nonostante le reiterate approvazioni verbali e scritte, a riconoscere la profondità innovatrice e liberatrice della didattica pestalozziana, ch’essi giudicavano alla stregua delle idee pedagogiche tradizionali e della prassi scolastica corrente. Ancora una volta doveva esplodere il contrasto fra la fede schietta e creatrice e il conservatorismo farisaico. Zschokke, commissario del direttorio, pur essendo amico del Pestalozzi, e pur riconoscendo pochi anni dopo che insieme con lui l’orfanotrofio «aveva perduto lo spirito del suo insegnamento», auspicava allora «un’organizzazione più solida» e il curalo Businger, con la solita angustia degli uomini di sacristia insinuava ipocritamente in una relazione che i difetti del «buon cittadino Pestalozzi» avevano impedito che la «nobile istituzione rispondesse alla sua destinazione filantropica, di modo che ogni uomo chiaroveggente desiderava vedere il buon Pestalozzi in qualsiasi altro luogo» a esclusione di Stans. La noti-zia dell’imminente arrivo delle truppe austro-russe, dopo la sconfitta di Massena nei pressi di Zurigo, offriva un eccellente pretesto per liberarsi del povero Pestalozzi. In sostanza l’orfanotrofio, sia pur con una scolaresca mollo ridotta, continuò a svolgere la sua attività. Fu affidato alla sorveglianza di un consigliere municipale, e per l’insegnamento ai frati cappuccini, che rimisero nell’istituto «l’ordine più rigoroso».

Quale contrasto fra le insinuazioni e le mediocri preoccupazioni di questi piccoli farisei e la schiettezza generosa di Pestalozzi! «Non sogna-re ancora ad un’opera compiuta! Momenti della più alta elevazione si alternavano con ore di disordine, di dispiacere e di preoccupazione».

Neppure Stapfer fu in grado di trionfare di queste opposizioni sub-dole e sotterranee.

La brevità dell’esperimento (dal gennaio al giugno 1799) non permise al Pestalozzi di ritentare come a Neuhof il «collegamento e la fusione di insegnamento e lavoro, attività didattica e industriale». Ma le sue idee nel frattempo avevano fatto un passo innanzi su quelle di Neuhof. Aveva imparato ormai a «considerare l’attività manuale piuttosto dal punto di vista della esercitazione del corpo al lavoro e al servizio che da quello del guadagno proveniente dal lavoro».

Le condizioni estremamente sfavorevoli e disagiate fra le quali si svolge la sua attività, le «sue difficoltà inesprimibili» anziché ostacolare secondavano l’esperimento. Il fatto di dover da solo attendere alle mansioni più disparate favorì il suo compito essenziale, «ch’era quello di affratellare i ragazzi facendo leva sui primi sentimenti suscitati dalla loro vita in comune, e sul primo svolgimento delle loro forze e di fondare la Casa nel semplice spirito di una grande comunità familiare». Solo a questo duro patto egli poteva aspirare a governare come un padre la comunità. «Essi erano fuori di Stans, essi erano con me, ed io con loro». «Io non avevo nulla, non avevo focolare, non amici, non persone di famiglia, avevo essi soltanto». L’ideale di Geltrude si era trasformato in una realtà vivente e operante.

E poi «la miseria e le necessità stesse della vita» non contribui-scono forse a illuminare l’uomo sulle relazioni più essenziali delle cose ed a secondare quindi l’opera dell’educatore?

E non era neppure un ostacolo «la totale mancanza di cultura scolastica». Chi sa quanto può il «vigore» delle «forze naturali della vita» non si disanima e non arretra dinanzi all’incultura. Tanto più che il sapere scolastico è spesso un «miserabile chiacchiericcio». Lo stesso illuminismo, egli pensa, ha accentuato il verbalismo nelle scuole, il maggior difetto di cui occorre guarirle. L’esperimento lo conferma nell’idea che c’è una sola fonte efficace del sapere, l’esperienza vissuta, l’esercizio normale di tutte le attività fondamentali dell’uomo, quali si svolgono spontaneamente al focolare domestico. «Un insegnamento scolastico che non abbraccia l’intero spirito, quale esige l’educazione dell’uomo, e non è costruito sopra la totalità vivente delle condizioni domestiche, non conduce, a mio avviso, che ad un metodo che intristisce artificialmente gli uomini».

Le parole non devono precedere ma seguire l’insegnamento del- l’esperienza. «Solo per ultimo provvedi ai pericolosi segni del bene e del male che son le parole: e connettile ai casi giornalieri della casa e dell’ambiente, che le parole si basino unicamente su di essi, per chiarire ai tuoi ragazzi che cosa accade in loro e intorno a loro, e far nascere con esse un modo giusto e onesto di concepire la loro vita e le loro relazioni sociali. Ma se tu dovessi vegliare intere notti, per dire in due parole quel che altri dicono in venti, non rimpiangere le tue notti insonni».

Il ripudio dei «mezzi artificiali» e l’aver ricondotto l’educazione nella sua ispirazione più profonda ai metodi casalinghi, fondati nell’amore e nell’esempio, ai procedimenti materni e paterni, è la maggiore originalità del grande Zurighese. Il modo in cui egli concepisce lo svolgimento spontaneo delle forze naturali nell’ambito della famiglia, «l’educazione morale elementare» costituisce la sua grande originalità anche nei confronti di Rousseau. La sua teoria sull’intuizione trova già qui la sua formulazione: «ogni principio si deve presentare da sé come vero, attraverso la coscienza intuitiva di esperienze ancorate alle relazioni reali».

Nelle poche pagine dedicate al metodo didattico procede più spiccio. Conforme allo spirito della sua pedagogia, insiste sul fatto che non si tratta tanto di trasmettere nozioni quanto di suscitare e disciplinare forze. Egli insiste nel concetto che «l’imparare non deve essere altro che un esercizio delle attività dell’anima. L’arte del giudicare e del concludere deve essere quindi pazientemente preparata dall’«esercizio dell’attenzione, della riflessione e della salda capacità di ritenere». Soltanto a questo patto si possono evitare la superficialità e l’avventatezza del giudizio.

Il pericolo non consiste già nell’«ignoranza in mille cose», ma nel-la mancanza di «una salda conoscenza intuitiva delle più prossime relazioni essenziali e di un sentimento delle proprie forze semplice e puro, ma solidamente piantato». Il che lo induce ad affermare un po’ paradossalmente che «le conoscenze più benefiche per l’umanità si trovano allo stato più puro tra gli uomini in cui il sapere scientifico è più limitato».

Questa persuasione lo indusse a non insistere tanto all’inizio sul compitare, sul leggere e scrivere quanto piuttosto sullo sviluppare, con a-deguati esercizi, «nel modo più multilatere e attivo possibile, le attività in generale dell’anima degli alunni».

Probabilmente non gli fu mai perdonato dai farisei che lo attornia-vano la confessione che «l’intera istituzione poggiasse su basi cosi semplici, cosi poco artificiose, che non avrebbe trovato maestro che non considerasse troppo umiliante insegnare e apprendere a quel modo».

Quella che fu chiamata «la follia di Stans» non è dunque soltanto una commovente testimonianza della generosità più che umana di Pesta-lozzi, è stata altresì una tappa decisiva nel processo di approfondimento della consapevolezza critica di quel che propriamente l’educazione sia. 

LETTERA AD UN AMICO SUL PROPRIO SOGGIORNO A STANS

[Annotazione: Seguo il testo dell’edizione Cotta (Stuttgart e Tübingen, 1822), riprodotto nella recente edizione delle Opere complete a cura di Bosshart, Dejung, Kampter e Stettbacher, vol. IX, Zurigo, 1944. Essa fu pubblicata la prima volta, con note e col titolo «Pestalozzi e il suo soggiorno a Stans», da Giovanni Niederer, nei fascicoli 7-9 del primo volume della sua Wochenschrift für Menschenbildung (Aarau, 1807). Fu ristampata più volte, per es. nei Pestalozziblättern (XX, n.i 4 e 5) di Hunziker, 1899, nell’ottavo volume delle Opere complete a cura del Seyffarth, Liegnitz, 1900, nel tredicesimo volume (Berlino e Lipsia, Walter de Gruyter und C°, 1932), delle Opere complete, a cura di Buchenau, Spranger e Stettbacher. È pure ristampata fra le Opere scelte a cura di F. Mann, Beyer und Söhne, volume V, 1906 (N. di E. C). ]

Sarei sceso nei più aspri burroni per avvicinarmi al mio fine, e mi ci avvicinai realmente. Ma pensa alla mia condizione: solo, privo completa- mente di ogni aiuto e sussidio per l’educazione; ad un tempo direttore, amministratore, domestico e persino sguattero, in una casa diroccata, tra l’ignoranza, la malattia e novità di ogni genere... .

Chi mi osservava si meravigliò del risultato. Certo fu come una me-teora che fende l’aria e sparisce. Nessuno ne riconobbe il senso profondo, neppure io stesso. (Come Geltrude istruisce i suoi figli. Lettera prima).

Amico!
[Annotazione: Enrico Gessner, editore zurighese, figlio del poeta. A lui sono pure indirizzate le lettere di Come Geltrude istruisce i suoi figli (N. di E. C).]

ancora una volta mi sveglio da un sogno, ancora una volta vedo distrutta l’opera mia e spese invano le mie forze che stanno svanendo. Ma per quanto il mio tentativo sia stato debole, per quanto sia stato infelice, gioverà ad ogni cuore che ama l’umanità indugiarsi un momento su di esso per ponderare le ragioni, che mi persuadono che nuove generazioni felici riprenderanno il filo dei miei desideri là dove io sono stato costretto a lasciarlo cadere.

Io ho ritenuto l’intera Rivoluzione [Annotazione: La Rivoluzione francese (N. di E. C.).] fin dalla sua origine come una semplice conseguenza della corrotta natura umana ed ho considerato la sua rovina come una necessità inevitabile per ricondurre gli uomini inselvatichiti alla consapevolezza dei loro problemi più essenziali. Senza fede nelle esteriorità della forma politica, che la massa di tali uomini potrebbe darsi, ho ritenuto che qualcuno dei concetti posti da essi all’ordine del giorno, degli interessi da essi suscitati erano suscettibili di condurre a qualche effetto benefico per l’umanità.

Dunque misi in circolazione, per quanto dipendeva da me, i miei antichi voti circa l’educazione popolare e li confidai in tutta l’estensione concepita da me, al cuore del Legrand [Annotazione: In Come Geltrude ecc., (ed. a cura di Banfi, Firenze), I lettera, il Pestalozzi afferma: «Per merito di Legrand avevo ottenuto la fiducia del primo Direttorio per ciò che riguardava l’educazione popolare ed ero sul punto di iniziare nel cantone di Argovia un vasto piano di educazione, quando scoppiò l’incendio di Stans, e Legrand mi pregò di scegliere come centro della mia attività quel luogo sventurato» (N. di E. C.).] (allora uno dei membri del Direttorio elvetico). Egli non solo si interessò di essi, ma fu del mio parere, che era inevitabile riorganizzare il sistema educativo della Repubblica e fu d’accordo con me che si potevano conseguire i più lusinghieri risultati nella cultura popolare con l’educare in modo completo un certo numero di individui prescelti fra i ragazzi più poveri della contrada, a patto che questa educazione non sottraesse i ragazzi alla loro cerchia, ma anzi li legasse più saldamente ad essa.

Io limitai i miei voti a questo punto di vista. Legrand lo favorì in ogni modo. Lo trovò talmente importante che ebbe a dirmi una volta: «Anche se dovessi abbandonare il mio posto, non lo farò prima che tu abbia iniziato la tua opera».

Siccome ho esposto minutamente il mio piano di educazione pubblica dei poveri nella terza e quarta parte di Leonardo e Geltrude (prima edizione), non lo ripeto qui. Lo esposi con tutto l’entusiasmo di speranze, che mi parevano vicine a realizzare una buona volta il grande sogno, al Ministro Stapfer [Annotazione: Alberto Stapfer, Ministro delle Arti e delle Scienze, guadagnato alle idee kantiane. Era professore di filologia e di filosofia a Berna (N. di E. C.). ]. Egli lo secondò col calore di un nobile spirito capace di abbracciare dai punti di vista più essenziali ed elevati le esigenze della cultura del popolo. Nello stesso modo si comportò il Ministro degli Interni, Rengger.
La mia intenzione era di scegliere per il mio scopo nella regione di Zurigo o in Argovia un luogo che, congiungendo i vantaggi locali, l’industria, l’agricoltura a mezzi esteriori di educazione, mi facilitasse tanto lo sviluppo del mio istituto, quanto il conseguimento dei suoi scopi interni. Ma la sciagura di Unterwalden [Annotazione: La sanguinosa e spietata repressione dei contadini insorti contro la Repubblica Elvetica, da parte delle truppe francesi (N. di E. C.).] (nel settembre 1798) decise del luogo che io dovevo scegliere. Il governo ritenne urgente di aiutare questo distretto a risollevarsi e mi pregò di dar mano per quella volta alla mia impresa, in un luogo cui mancava effettivamente tutto quello che avrebbe potuto in qualche modo assicurarmi il successo [Annotazione: L’apertura dell’istituto, che doveva accogliere gli orfani degli insorti trucidati, fu decisa il 18 novembre 1798 (N. di E. C.).].

Ci andai volentieri. Speravo di trovare nell’innocenza del paese di che supplire alle sue deficienze, e nella sua miseria un fondamento alla sua gratitudine. La mia ansia di realizzare una buona volta il grande sogno della mia vita, mi avrebbe indotto a cominciare, se così posso dire, in cima alle Alpi, senza fuoco e senz’acqua, a patto però che mi si lasciasse cominciare.

Il governo mi assegnò per dimora il nuovo edificio delle monache (Orsoline) a Stans. Ma, quando vi arrivai [Annotazione: Nel dicembre 1798. I primi ragazzi furono accolti nell’istituto verso il 15 gennaio seguente (N. di E. C). ] , esso non era né ultimato né punto attrezzato come orfanotrofio, per accogliere un gran numero di ragazzi. Occorse anzitutto metterlo in condizione di essere adoperato. Il governo fece prendere le disposizioni necessarie e Rengger condusse innanzi la faccenda con zelo, vigoria e attività. E infatti il governo non mi fece mancare il denaro per gli apprestamenti necessari della cosa. Ma nonostante la grande buona volontà e l’appoggio fornitomi, questi preparativi esigevano per lo meno del tempo. Ed è questo che è mancato di più. Fu difatti necessario provvedere rapidamente a un grande numero di ragazzi, gli uni abbandonati, gli altri privati dei loro genitori dagli avvenimenti sanguinosi che erano accaduti. Se si fa del resto eccezione del denaro necessario, difettava tutto, e i ragazzi affluirono prima che fossero pronti ad accoglierli la cucina, le camere e i letti. Il che provocò all’inizio una confusione incredibile. Nelle prime settimane fui confinato in una camera che non misurava più di 24 piedi quadrati. L’atmosfera era malsana, vi si aggiunse il maltempo e la polvere dai muri che riempiendo tutti i passaggi completava il disagio dell’inizio.

Per mancanza di letti la notte fui costretto da principio a rinviare parte dei poveri ragazzi a casa. Essi ritornavano tutti il mattino carichi di insetti. Alla loro entrata la maggior parte di questi ragazzi erano nella condizione alla quale conduce in generale necessariamente l’estrema degenerazione della natura umana. Molti di essi arrivavano affetti da scabbia così inveterata da poter appena camminare, molti con le teste piagate, molti con stracci carichi di insetti, molti magri come scheletri, gialli, ghignanti, con occhi pieni d’angoscia e con fronti cariche di rughe della diffidenza e della preoccupazione, alcuni pieni di audace sfrontatezza, abituati alla mendicità, all’ipocrisia e ad ogni falsità, altri oppressi dalla miseria, pazienti ma sospettosi, incapaci di amore e timorosi. Fra loro qualche figlio di papà, che aveva vissuto un tempo nell’agiatezza; costoro erano pieni di pretese, si coalizzavano, gettavano sguardi di disprezzo sui piccoli mendicanti e sui ragazzi poveri, non si trovavano a loro agio in questo nuovo stato di eguaglianza; il regime quale era stato istituito per i poveri non quadrava con le loro agiatezze di un tempo, e non corrispondeva quindi alle loro aspirazioni. Dovunque pigra inazione, insufficiente esercizio delle loro facoltà spirituali e delle loro attitudini fisiche essenziali. Appena uno su dieci conosceva l’abc. Di altre conoscenze scolastiche e di altri mezzi essenziali di educazione non era neppure il caso di parlare.

La totale mancanza di cultura scolastica era però quello che meno mi preoccupava; fidando nelle forze della natura umana, che Dio ha posto anche nei ragazzi più poveri e più negletti, non soltanto avevo appreso da molto tempo dalla mia esperienza passata che codesta natura sviluppa nel fango della rozzezza, della selvatichezza e della degenerazione, le più belle facoltà e capacità, ma scorgevo effettivamente anche nei miei ragazzi, in mezzo alla loro rozzezza, prorompere da ogni parte il vigore di queste forze naturali della vita. Sapevo quanto la miseria e le necessità stesse della vita contribuiscano a illuminare l’uomo sulle relazioni più essenziali delle cose, a svilupparne il buon senso e il giudizio sano ed a stimolare forze che appaiono sì nel basso grado della loro esistenza coperte di sudiciume, ma brillano di luce vivida appena sono liberate dal fango che le imprigiona. Che era appunto quel che volevo fare. Le volevo liberare da questo fango, e trasportarle in un ambiente semplice, ma puro e casalingo. Ero sicuro che non occorreva altro perché queste disposizioni naturali si palesassero come senso superiore, superiore energia capace di compiere tutto ciò che può muovere le inclinazioni più intime del cuore.

Vedevo dunque compiuti i miei voti ed ero persuaso che il mio cuore avrebbe cambiato lo stato dei miei ragazzi con la stessa rapidità con cui il sole in primavera aiuta il suolo intirizzito dall’inverno. E non andavo errato; prima che il sole primaverile avesse sciolto la neve dei nostri monti, i miei ragazzi non si riconoscevano più.

Ma non voglio anticipare. Amico, ti voglio far assistere alla crescita della mia pianta, come io stesso la sera osservavo la mia zucca che cresceva rapidamente lungo la mia casa; e non ti tacerò il verme che spesso s’attaccava alle foglie di questa zucca spesso e anche al suo cuore.

Andai fra questi ragazzi e aprii il mio istituto senza altri aiuti per la loro istruzione e per le cure casalinghe che una donna di casa. Io solo lo volli e lo dovevo volere assolutamente, se il mio scopo doveva essere raggiunto. Sulla terra di Dio non appariva nessuno che avesse voluto entrare nelle mie vedute circa l’istruzione e il disciplinamento dei ragazzi. Non conoscevo allora quasi nessuno che fosse in grado di farlo. Più erano istruiti e colti gli uomini che avrei potuto scegliere come collaboratori, meno mi capivano e meno si mostravano capaci di intendere, anche solo teoricamente, il punto di partenza cui cercavo di risalire. Tutte le loro vedute sull’ordinamento, sui bisogni del- l’impresa erano del tutto estranee alle mie. Li urtavano soprattutto l’idea e la possibilità di non ricorrere a nessun mezzo artificiale e di adoperare unicamente come mezzo di educazione la natura che circondava i ragazzi, i loro bisogni giornalieri e la loro attività sempre desta. E pure era proprio questa l’idea su cui era fondata l’intera esecuzione della mia impresa. Essa a impresa. Essa era anche il centro cui si rannodava una moltitudine di altri punti di vista e che per così dire ne derivavano.

Uomini di scuola istruiti non mi potevano dunque essere di nessun aiuto. Ancora meno mi potevano giovare, naturalmente, se erano rozzi e incolti. Non avevo un filo definito e sicuro da mettere fra le mani di un collaboratore, e neppure un fatto, un oggetto dell’intuizione, nel quale rendere sensibili la mia idea e il mio procedimento. Lo volessi o no, toccava a me farmi io stesso un fatto e con ciò che facevo e mi proponevo di fare rendere chiara l’essenza delle mie vedute, prima di poter contare su un aiuto estraneo a questo riguardo. In questa situazione nessun uomo mi poteva aiutare nell’essenziale. Dovevo aiutarmi da me.

La mia persuasione faceva tutt’uno col mio scopo. Col mio tentativo io volevo per l’appunto dimostrare, che i vantaggi dell’educazione domestica devono essere presi a modello dall’educazione pubblica e che soltanto se questa l’imita ha un valore per il genere umano. Un insegnamento scolastico che non abbraccia l’intero spirito, quale esige l’educazione dell’uomo, e non è costruito sopra la totalità vivente delle condizioni domestiche, non conduce, a mio avviso, che ad un metodo che intristisce artificialmente gli uomini.

Ogni buona educazione esige che l’occhio materno legga, al focolare, con sicurezza, giorno per giorno, ora per ora, ogni mutamento nello stato d’animo del figlio, nel suo occhio, sulla sua bocca e sulla sua fronte. Essa esige in sostanza, che la forza dell’educatore non sia che la forza paterna pura, animata dalla presenza dell’intero ambito delle relazioni domestiche.

Su questo io costruivo. I miei ragazzi dovevano vedere sulla mia fronte e cogliere sulle mie labbra, ad ogni istante, dal primo mattino alla tarda sera, che il mio cuore era per loro, che la loro felicità era la mia felicità, la loro gioia la mia gioia.

L’uomo vuol tanto volentieri il bene, il fanciullo gli porge così volentieri l’orecchio per saperlo, ma non già per te, lettore, non già per te, maestro, ma per se stesso. Il bene cui tu devi condurlo, non deve essere un capriccio del tuo umore e della tua passione, deve essere buono in sé secondo la natura della cosa e deve apparire buono agli occhi del fanciullo. Egli deve sentire la necessità della tua volontà, la deve sentire conforme alla sua situazione ed ai suoi bisogni, prima che voglia lo stesso anche lui. Egli vuole tutto ciò che è espressione della sua volontà. Vuole tutto ciò che gli reca onore. Vuole tutto ciò che suscita in lui grande attesa. Egli vuole tutto, ciò che suscita in lui delle forze, che lo induce a dire «so farlo».

Questa volontà però non viene suscitata da parole, ma mediante la cura completa del ragazzo e mediante i sentimenti e le forze che vengono suscitate in lui da questa cura completa. Le parole non danno la cosa, ma soltanto una chiara idea, la coscienza di essa.

Anzitutto volevo e dovevo cercare di guadagnare la confidenza dei ragazzi e il loro affetto. Se vi pervenivo, potevo attendere che tutto il rimanente venisse da sé. Amico, pensa però alla mia situazione, alle disposizioni del popolo e dei ragazzi e immagina quante difficoltà dovevo superare!
L’infelice paese aveva provato col fuoco e col ferro tutti gli orrori della guerra. Il popolo nella sua grande maggioranza odiava la nuova costituzione. Era esasperato contro il governo e considerava sospetti perfino i soccorsi. Il suo carattere naturalmente melanconico, mentre lo rendeva avverso a qualsiasi novità straniera, lo teneva avvinto, con amara e sospettosa caparbietà, all’insieme della sua antica esistenza, per quanto fosse miserabile.

Io stavo fra loro come una creatura del nuovo ordine di cose che odiavano; se non uno strumento, per lo meno un mezzo in mano ad uomini che da un lato essi associavano all’idea della loro sventura, e di cui, nel complesso delle loro opinioni, progetti e pregiudizi, spesso contraddittori, non potevano essere d’altra parte minimamente soddisfatti. Questo malcontento politico era poi rafforzato da un altrettanto forte malcontento religioso. Mi consideravano un eretico che recava sì qualche bene ai ragazzi, ma metteva in pericolo la salute della loro anima [Annotazione: I contadini erano cattolici, Pestalozzi riformato (N. di E. C.).] . Questa gente non aveva mai veduto un riformato adempiere fra loro una funzione pubblica, vivere fra loro e esplicarvi opera di educatore e di maestro; e il momento favoriva la diffidenza religiosa strettissimamente congiunta ai timori, alle esitazioni e in parte all’ipocrisia della vita politica che allora più che mai, da quando Stans è esistita, era all’ordine del giorno.

Considera, amico, questo stato d’animo del popolo, e poi la mia forza così incapace di imporsi e la mia situazione! Considera a quanto dovevo essere personalmente e quasi pubblicamente esposto e di quanta equanimità ho dovuto dar prova in queste circostanze, anche in mezzo a questo popolo, per poter continuare l’opera mia liberamente.

Mi sentivo oppresso e affranto da questa mancanza di aiuto, nello stato in cui mi trovavo, eppure da un altro lato essa secondava l’essenziale dei miei scopi. Mi costringeva ad essere tutto per i miei ragazzi. Io ero quasi solo fra loro da mattina a sera. Tutto il bene che veniva fatto al loro corpo ed alla loro anima proveniva dalle mie mani. Ogni aiuto, ogni assistenza nel bisogno, ogni sapere che essi ricevevano ero io ed io solo a procurarglielo. La mia mano era nella loro mano; i miei occhi riposavano nei loro occhi. Le mie lacrime scorrevano insieme con le loro, e il mio sorriso si confondeva col loro. Essi erano fuori del mondo, essi erano fuori di Stans, essi erano con me, ed io con loro. Il loro pasto era il mio, la loro bevanda la mia. Io non avevo nulla, non avevo focolare, non amici, non persona di servizio, avevo essi soltanto. Se erano sani vivevo fra loro, se erano malati stavo al loro capezzale. Dormivo fra loro. Ero l’ultimo ad andare a letto la sera, il primo ad alzarmi la mattina. Pregavo con loro e li istruivo anche da letto fino a che si addormentavano; erano essi che lo volevano. Esposto ogni momento al pericolo di un duplice contagio, curavo la quasi invincibile sporcizia dei loro abiti e delle loro persone. Ma solo a questo patto veramente fu possibile che questi ragazzi a poco a poco si affezionassero a me e alcuni così a fondo da contraddire genitori e amici, quando ascoltavano da loro qualche stoltezza o qualche parola di disprezzo nei miei riguardi. Avvertivano che si era ingiusti verso di me, e direi che per questo appunto mi amassero doppiamente. Ma a che giova che gli uccellini amino la mamma nel loro nido, quando il potente uccello da preda, che li minaccia tutti di morte, vola quotidianamente sul loro nido?

II primo effetto di questi principi e di questo operare fu tutt’altro che soddisfacente, e non poteva esserlo. I ragazzi non credevano al mio amore. Abituati all’ozio, ad una vita indisciplinata e selvaggia con i suoi godimenti irregolari, e delusi nella speranza di essere nutriti nel convento secondo l’uso dei monaci, di poter condurvi una vita inoperosa, alcuni ragazzi presero a lamentarsi della lunghezza del tempo e non vollero trattenervisi. Parecchi parlavano di una febbre delle scuole, che colpisce i ragazzi quando sono occupati allo studio tutto il giorno.

Questo malcontento dei primi mesi fu favorito soprattutto dal fatto che il totale mutamento di regime e d’abitudini, i rigori della stagione e il freddo umido dei corridoi del convento contribuirono a far ammalare parecchi ragazzi. Una tosse che mi preoccupava colse tosto quasi tutti, ed una febbre putrida che imperversava in quasi tutto il paese costrinse non pochi ragazzi a starsene in letto. Questa febbre aveva sempre inizio col vomito, ma esso era spesso provocato, senza accesso febbrile, dal puro e semplice cambiamento di cibo. Ma si attribuì generalmente alla cattiva qualità degli alimenti ciò che, lo dimostrarono i fatti, era una mera conseguenza di tutte le circostanze che abbiamo menzionate.
Tuttavia neppure un ragazzo soccombette. Ed in seguito apparve chiarissimo, che il malessere di molti ragazzi era sì derivato dal nutrimento, ma che esso aveva giovato alla loro salute. È stata un’esperienza notevole. I ragazzi s’erano nutriti in principio di molto tritello d’avena. II popolo attribuiva in genere a questo nutrimento la tosse persistente. Ora apparve che era vero, ma non nel senso in cui il popolo parlava di questa avena come un alimento miserabile; io stesso le attribuivo i frequenti vomiti dei miei ragazzi; ma l’avena provocava questo effetto come rimedio e non già come cattivo nutrimento. La costituzione dei ragazzi era stata profondamente guastata dal loro nutrimento; il piccolo numero di essi che godeva buona salute prosperarono sin dall’inizio, ma tosto ne trassero beneficio anche quelli che avevano sofferto. Al primo apparire della primavera i ragazzi fiorirono tutti a vista d’occhio; non soltanto crebbero di statura, ma il loro colorito migliorò rapidamente come accade soltanto ad individui assoggettati a cure ben riuscite; il che è tanto vero che ecclesiastici e autorità, che li videro in seguito, dissero, ad una voce, che non riconoscevano più quei ragazzi, tanto era migliorato il loro aspetto [Annotazione: Si conservano relazioni di Truttmann, sottoprefetto d’Arth e di Businger, curato di Stans, che parlano con entusiasmo dei rapidi progressi fatti d progressi fatti dagli alunni di Pestalozzi (N. di E. C.).].

Tuttavia, lo stato d’indisposizione di parecchi durò abbastanza a lungo e fu ancora peggiorato dall’influenza dei genitori. Povero bambino, che brutta cera tu hai, io ti potrei curare per lo meno quanto fanno qui, vieni a casa! Così dicevano a voce alta, davanti a tutti i ragazzi, tosto che entravano nel locale, molte madri abituate a mendicare di porta in porta insieme coi loro figli!

In questo periodo la domenica era per me un giorno terribile. Arrivavano madri, padri, fratelli, sorelle in frotta, attiravano i miei ragazzi sulla strada e in ogni cantuccio della casa, parlavano loro per lo più con le lacrime agli occhi: i ragazzi piangevano a loro volta e sentivano la nostalgia. Per mesi non ci fu quasi domenica in cui parecchi non fossero indotti ad andarsene; ma ne venivano sempre di nuovi. Era una specie di piccionaia, l’uno entra, l’altro vola via.

Si possono comprendere le conseguenze di questo via vai in una istituzione ai suoi inizi. Genitori e figli credettero tosto di farmi un favore personale se questi ultimi rimanevano; molti di loro s’informarono presso i cappuccini e altrove se non avevo proprio nessun altro mezzo di che vivere, dato che ci tenevo tanto a tenere i miei allievi. Questa gente in generale era persuasa che solo la povertà mi inducesse a sobbarcarmi a questa fatica, e questa persuasione si manifestava con una grande disinvoltura nel loro modo di trattare con me. Alcuni giunsero a pretendere persino l’elemosina da me, se dovevano lasciare i ragazzi, e affermavano che derivava loro un grosso danno dal non poter più condurre con sé i figli a chiedere la carità: altri, col cappello in testa, dichiaravano di voler far la prova per un altro paio di giorni; altri mi volevano imporre le loro condizioni, quante volte avrei permesso ai ragazzi di recarsi a casa.

Trascorsero così dei mesi, prima che avessi la gioia che un padre e una madre mi stringessero la mano con occhio soddisfatto, riconoscente. I ragazzi si ripresero più rapidamente. In questo periodo ne vidi piangere parecchi, perché i loro genitori entravano ed uscivano, senza salutarmi né usarmi alcun riguardo. Molti si sentivano felici e, checché dicessero le madri, rispondevano loro: «Sto meglio qui che a casa mia». Quando parlavo loro a tu per tu, mi raccontavano volentieri quanto erano infelici; gli uni, come dovessero vivere giornalmente fra i litigi, come non potessero godere di un momento di pace e di gioia; gli altri, che dovevano trascorrere intere giornate senza vedere né zuppa né pane; altri ancora come per tutto il corso dell’anno non avevano goduto di un letto; altri finalmente, come erano perseguitati da una matrigna e sferzati ingiustamente quasi ogni giorno. E pure erano proprio questi ragazzi che all’indomani si allontanavano con le loro madri.

Taluni però, non pochi, videro tosto che con me potevano imparare e diventare qualche cosa, e perseverarono nell’attaccamento e nello zelo, che avevano mostrato fin da principio. E non trascorse molto tempo che mi testimoniarono un attaccamento e un affetto così cordiale, che molti altri per gelosia imitarono quel che non sentivano.

Quelli che si allontanavano erano manifestamente i più cattivi e i più incapaci. Ero pure sicuro, che non si inducevano i ragazzi a ritornare a casa loro se non dopo che s’erano liberati dei loro insetti e dei loro stracci. Molti evidentemente non venivano se non con l’intenzione ben precisa di farsi pulire e vestire per poi andarsene.

Ma alla fine la loro convinzione personale pose un termine all’ostilità dei loro inizi. L’istituzione crebbe ininterrottamente, sicché nel 1799 avevo circa 80 ragazzi. La maggior parte di questi erano dotati bene, taluni eccellentemente. Per i più l’imparare era alcunché del tutto nuovo, e tosto che alcuni di essi s’avvidero che concludevano qualche cosa, il loro zelo diventò infaticabile. Ragazzi, che in tutta loro vita non avevano mai avuto in mano un libro, che tutt’al più sapevano a memoria il Pater noster e l’Ave Maria, in poche settimane fecero tali progressi da attendere quasi ininterrottamente allo studio e col massimo interesse dalla prima mattina alla sera inoltrata. Persino dopo cena, specialmente nei primi tempi, quando chiedevo loro : «Ragazzi, preferite andare ora a dormire o imparare?», mi solevano rispondere: «Imparare». È vero che si raffreddarono più tardi, quando furono costretti ad alzarsi più presto. Ma questo primo zelo impresse all’insieme la sua direzione e assicurò allo studio un successo, che oltrepassò di molto la mia aspettazione.

Tuttavia le mie difficoltà erano inesprimibili; dare una buona organizzazione all’insegnamento non era ancora possibile. Tutta questa fiducia e tutto questo zelo non bastavano a vincere la rozzezza dei singoli e la confusione dell’insieme. Solo col cercare un più alto fondamento, col crearlo per così dire, potevo imprimere un procedimento ordinato all’insieme. Prima che sorgesse questo fondamento non era possibile organizzare seriamente né l’insegnamento, né l’economia e gli studi dell’istituto. E non l’avrei voluto neppure io. L’una e l’altra cosa dovevano sorgere piuttosto che da un piano preordinato dalle mie relazioni coi ragazzi. Anche qui c’erano fondamenti più alti e forze creatrici. Quelle cose dovevano nascere da un più alto spirito dell’istituto e dall’attenzione e attività armonica dei ragazzi, essere il frutto immediato della loro esistenza, dei loro bisogni della vita in comune.

Infatti né dall’economia né da altra cosa esteriore potevo e dovevo muovere per trar fuori i miei ragazzi dal fango e dalla rozzezza che li circondava e li aveva anche interiormente avviliti e inselvatichiti. Era così poco possibile fin da principio sottoporli rigidamente alla costrizione d’un ordine e di una disciplina esteriori o di elevare il loro interno con prediche di regole e di precetti; l’indisciplina e la corruzione in cui giacevano immersi in tal modo li avrebbe piuttosto allontanati da me e avrebbe diretto immediatamente la loro natura selvaggia contro i miei scopi. Dovevo necessariamente in primo luogo svegliare in essi ed animare il loro interno disponendoli alla giustizia e alla moralità, per renderli così attivi, attenti, condiscendenti, obbedienti nella loro condotta esterna. Non potevo fare altrimenti, dovevo costruire sul principio sublime di Gesù Cristo: purifica l’interno se vuoi che diventi pulito anche l’esterno [Annotazione: Matteo, 23, 26 (N. di E. C.).], e mai questo principio si è mostrato più irrefutabilmente vero che nel mio caso.

Il mio intento essenziale era anzitutto quello di affratellare i ragazzi facendo leva sui primi sentimenti suscitati dalla loro vita in comune, e sul primo svolgimento delle loro forze, di fondere la casa nel semplice spirito di una grande comunità familiare, e sulla base di una tale convivenza e dello stato d’animo che ne sarebbe nato, suscitare in tutti uno spirito di giustizia e di moralità.

Raggiunsi questo scopo in modo abbastanza felice. Si videro tosto questi settanta piccoli mendicanti inselvatichiti vivere fra di loro in una pace, in un amore, in un reciproco cordiale rispetto che solo di rado si riscontrano fra fratelli in piccole famigliole.

Nella mia condotta muovevo allora da questo principio: procura anzitutto di allargare il cuore dei tuoi ragazzi e, mediante l’appagamento dei loro bisogni giornalieri, cerca di ispirare amore e carità ai loro sentimenti, alle loro esperienze ed al loro operare, radicandoli ben saldi nel loro interno, poi insegna loro molte abilità in modo che possano esercitare largamente e a fondo questa benevolenza nella loro cerchia. Solo per ultimo provvedi ai pericolosi segni del bene e del male che son le parole: e connettile ai casi giornalieri della casa e dell’ambiente, che le parole si basino unicamente su di essi, per chiarire ai tuoi ragazzi che cosa accade in loro e intorno a loro e far nascere con esse un modo giusto e onesto di concepire la loro vita e le loro relazioni sociali. Ma se tu dovessi vegliare intere notti, per dire in due parole quel che altri dicono con venti, non rimpiangere le tue notti insonni.

Ho dato infinitamente poche spiegazioni ai miei ragazzi; non ho loro insegnato né morale né religione; ma, quando erano così quieti che li avrei uditi respirare, chiedevo loro: non diventate forse più ragionevoli e bravi ora di quando fate rumore? Quando mi saltavano al collo e mi chiamavano loro padre, chiedevo loro: ragazzi, potete ingannare vostro padre? È giusto baciarmi e fare alle mie spalle quel che mi addolora? Quando si parlava della miseria del paese ed essi erano lieti e si sentivano felici, dicevo loro: non è forse buono Dio per aver posto la compassione nel cuore dell’uomo?

Chiedevo anche loro qualche volta: non c’è forse differenza fra le autorità, che educano i poveri in modo eh’essi possano continuare ad aiutarsi da sé nel resto della vita, e quelle che o non se ne curano o li sostentano con il pane dell’elemosina e negli ospedali, senza venire realmente in soccorso alla loro miseria e senza por veramente fine ai loro vizi ed alla loro oziosità?

Spesso descrivevo loro la felicità di un focolare domestico tranquillo e pacifico che, con la riflessione e l’assiduità al lavoro, si è conquistato un pane sicuro e si è posto in grado di consigliare e di soccorrere gli ignoranti, gli ineducati, gli infelici. Quando si stringevano al mio petto, chiedevo già dai primi mesi ai più sensibili: non gioiresti anche tu come me di vivere in mezzo ai poveri, di educarli, di farne degli uomini educati? Mio Dio, come si elevavano i loro sentimenti, come si riempivano di lacrime i loro occhi, quando mi rispondevano: - Gesù Maria! Potessi arrivarci anch’io!

Ciò che li elevava soprattutto era la prospettiva di non rimanere eternamente poveri, di poter apparir un giorno fra i loro simili provvisti di cognizioni e di abilità, di poter recare loro qualche aiuto e di godere della loro considerazione. Sentivano che io li conducevo assai più lontano di altri ragazzi; essi avvertivano vivamente lo stretto legame fra il mio modo di guidarli e la loro vita futura, alla loro immaginazione si profilava come accessibile e sicuro un avvenire felice. In tal modo la loro assiduità diventò tosto più facile. I loro desideri e le loro speranze armonizzavano con lo scopo di essi. Amico, la virtù germoglia in questa consonanza, come la pianticella dalla consonanza del suolo con la natura e con le esigenze delle sue fibre più delicate. Ho visto destarsi nei ragazzi un’intima vigoria la cui universalità ha di molto oltrepassato la mia attesa e le cui manifestazioni mi hanno spesso non meno stupito che commosso.

Quando ci fu l’incendio di Altdorf [Annotazione: Altdorf, capoluogo del Cantone di Uri, fu distrutta da un incendio il 5 aprile 1799. Si attribuì il disastro all’odio dei contadini del Cantone contro il nuovo regime repubblicano. Pareva che i ricchi industriali del capoluogo fossero inclini a venire a patti con la Repubblica Elvetica (N. di E. C).], li raccolsi intorno a me e dissi loro: Altdorf è bruciata, forse in questo momento ci sono cento bambini senza tetto, senza pane, senza indumenti. Sareste disposti a pregare i nostri buoni governanti ad ospitare una ventina di questi ragazzi nella nostra casa? È viva ancora oggi dinanzi ai miei occhi la commozione con la quale accompagnarono le loro grida: — sì! oh, Dio mio, sì. — Ma, ragazzi miei, dissi allora, riflettete a quel che chiedete. La nostra casa non dispone come vuole di denaro; non è sicuro, che ce ne diano di più per questi poveri fanciulli. Voi potreste dunque trovarvi, a cagione di questi ragazzi, in condizione di dover lavorare di più per istruirvi, di aver meno da mangiare e di dover persino dividere i vostri abiti con loro. Non dite dunque che desiderate questi ragazzi, a meno che non siate veramente disposti a sopportare volentieri, a causa della loro miseria, tutto questo. Parlai loro così con tutta la forza di cui ero capace; feci loro ripetere quel che avevo detto per assicurarmi che avevano ben compreso le conseguenze della loro offerta; ma essi rimasero saldi e ripeterono: — sì, sì, anche se mangiassimo meno bene, e dovessimo lavorare di più e condividere con essi i nostri vestiti, siamo contenti che vengano.

Poiché certi abitanti dei Grigioni emigrati, con le lacrime agli occhi m’avevan lasciato scivolare fra le mani qualche tallero, non lasciai partire questi uomini, chiamai i ragazzi e dissi loro: ragazzi, questi uomini sono fuggiti dal loro paese e forse non sanno dove domani poseranno il capo e troveranno di che vivere, e pure, nella loro estrema miseria vi offrono questo dono; ringraziateli! La commozione dei ragazzi strappò i singhiozzi agli uomini.

Facevo così precedere ogni discorso su una data virtù dal sentimento vissuto di quella virtù, poiché consideravo un male parlare con i miei ragazzi di qualsiasi cosa sulla quale non avessero nulla da dire.
A questi sentimenti univo inoltre esercizi di dominio di sé, in modo da offrire loro immediata applicazione e attuazione nella vita. Naturalmente non era possibile organizzare di colpo la disciplina dell’istituzione sotto questo riguardo. Anch’essa doveva venire fuori a grado a grado dai bisogni che via via si manifestavano.

Il silenzio come mezzo per ottenere l’attività è forse il primo segreto di una casa come la mia. Il silenzio che esigevo quando ero presente e insegnavo, era un mezzo importante per conseguire il mio scopo: come pure la positura immobile che dovevano assumere i ragazzi seduti davanti a me. Per quanto concerne il silenzio ero pervenuto a ottenere che al momento, in cui lo esigevo, si poteva avvertire, anche quando tutti i ragazzi ripetevano in coro,  qualsiasi difetto di pronunzia; e potei poi anche insegnare a voce bassa e affiochita e non si udiva altro suono se non quello che io esprimevo e che i ragazzi dovevano ripetere. È vero che le cose non andavano sempre così lisce.

Io esigevo fra l’altro per ischerzo che, mentre ripetevano quel che io avevo detto, tenessero gli occhi fissi sul dito medio. È incredibile, quanto l’esigere questi piccoli atti può giovare all’educatore per ottenere gli scopi più elevati. Una ragazzina trascurata, che si abitui a tenere per ore il corpo e la testa diritti, senza lasciar vagabondare i suoi occhi, riceve già da questo un avviamento alla formazione morale, che non crederebbe nessuno che non l’abbia sperimentato.

Queste esperienze mi hanno insegnato che l’abituarsi ad assumere semplicemente gli atteggiamenti di vita virtuosa contribuisce infinitamente di più all’effettiva educazione dell’attività virtuosa di tutte le teorie e prediche, non sorrette da questi mezzi.

In virtù dell’applicazione di questi principi lo stato d’animo dei miei ragazzi era manifestamente più sereno, più calmo, più aperto a tutto ciò che è alto e buono, di quel che avrebbe potuto far supporre il completo vuoto dei loro cervelli in fatto di concetti morali.

Questo vuoto non era un vero ostacolo, mi impacciava appena. Al contrario, data la semplicità del mio modo di procedere, costituiva un vantaggio per me: facevo incomparabilmente meno fatica a far intendere i semplici concetti a ragazzi totalmente ignoranti che a quelli che avevano già in testa questa o quell’idea storta.  Essi  erano  pure  infinitamente  meno  restii,  che non gli altri, a sentimenti semplici e candidi.

Ma quando i ragazzi mostravano durezza e rozzezza, ero severo e ricorrevo a punizioni corporali.
Caro amico, il principio pedagogico di impadronirsi dello spirito e del cuore di una frotta di ragazzi con le sole parole, senza dover ricorrere all’impressione prodotta dalle punizioni corporali, si può certamente applicare con ragazzi felici e in circostanze favorevoli; ma col miscuglio così eterogeneo dei miei piccoli mendicanti, tenuto conto della loro età, delle loro abitudini radicate, e del bisogno che avevo di agire su tutti con mezzi semplici, in modo rapido e sicuro, per raggiungere il mio scopo, ad onta di tutto, il ricorso all’impressione delle punizioni corporali era essenziale, e la preoccupazione di perdere in tal modo la confidenza dei ragazzi era priva di qualsiasi fondamento. Non sono singoli atti isolati che determinano il modo di sentire e di pensare dei ragazzi, è il complesso della vera tua attitudine che si ripete dinanzi ai loro occhi giorno per giorno ora per ora, è il complesso dei tuoi sentimenti di simpatia o di antipatia nei loro riguardi, che determina in modo decisivo il loro animo verso di te. Ne consegue che ogni impressione provocata da atti isolati è determinata dalla salda esistenza della disposizione fondamentale del cuore dei ragazzi.

Ecco perché le punizioni paterne e materne provocano raramente il risentimento. Ben diverso è il caso delle punizioni dei maestri di scuola o di altri insegnanti che non vivono giorno e notte in chiarissime relazioni naturali coi ragazzi e costituiscono con essi una famiglia. Manca loro il fondamento di mille circostanze che attraggono e trattengono il cuore dei ragazzi, il cui difetto li rende estranei ai ragazzi facendoli loro apparire come uomini  del tutto diversi da quelli che sono congiunti ad essi dal
l’insieme di queste chiare relazioni naturali.

Nessuna delle mie punizioni provocava ostinatezza; quanto erano felici quando un istante dopo tendevo loro la mano e li baciavo di nuovo. Mi mostravano raggianti ch’erano contenti e soddisfatti dei miei ceffoni. La più forte esperienza ch’io abbia fatto a questo proposito è la seguente: uno dei ragazzi che amavo di più abusò un giorno della certezza ch’io l’amavo e minacciò ingiustamente un altro; ne fui indignato e gli feci sentire il mio disappunto con mano dura. Parve che il ragazzo non potesse resistere al dolore, pianse ininterrottamente per un quarto d’ora e, tosto che uscii dalla porta, si alzò, andò dal ragazzo che aveva accusato, gli chiese perdono e lo ringraziò di aver denunziato la sua pessima condotta nei suoi riguardi. Non era una commedia, amico; il ragazzo non aveva veduto nulla di simile per l’innanzi.

Caro amico, i miei ceffoni non potevano suscitare cattivi risentimenti nei miei ragazzi, perché trascorrevo le intere giornate fra loro con pura affezione e mi dedicavo interamente ad essi. Essi non si sbagliavano nell’interpretare i miei atti, poiché non potevano disconoscere il mio cuore; non si comportavano così coi genitori, amici, stranieri e pedagoghi in visita. Anche questo era naturale. Ma non mi curavo del mondo intero, una volta che ero compreso dai miei ragazzi.

Facevo anche tutto il possibile per far loro vedere distintamente e chiaramente, in tutto quello che poteva attrarre la loro attenzione o provocare le loro passioni, perché io mi comportavo come mi comportavo. Questo, amico, mi riconduce all’intero ambito dell’azione morale in una educazione basata su relazioni effettivamente domestiche.

L’educazione morale elementare si fonda in generale nel suo complesso su tre punti: tendere a suscitare uno stato d’animo morale mediante sentimenti puri; esercitarsi alla moralità col dominare se stessi e con lo sforzarsi di fare atti giusti e buoni, e finalmente promuovere il giudizio morale col far riflettere, paragonandole fra di loro, sulle condizioni di giustizia e di onestà in cui il ragazzo si trova implicato nel corso della sua vita quotidiana.

Finora, caro amico, ho richiamato la tua attenzione su qualcuno dei mezzi cui son ricorso per raggiungere i due primi punti. Altrettanto semplice era il procedimento per far nascere nei miei ragazzi le nozioni e i concetti di diritto e di dovere, fondato anch’esso interamente come negli altri due casi, sulle intuizioni e le esperienze quotidiane del loro mondo. Quando per es. chiacchieravano e c’era rumore, non potevo se non fare appello al loro sentimento: è possibile insegnare in quelle condizioni? Ma non dimenticherò per tutta la vita, quanto ho trovato in tutti saldo e flessibile il loro sentimento di ciò che è giusto e quanto la pura benevolenza innalzava e rinsaldava questo sentimento.

In ogni contingenza della casa mi rivolgevo ad essi stessi e a questo sentimento. Chiedevo per lo più il loro libero giudizio nelle ore calme della sera.

Quando si diceva, per es., nel villaggio che non avevano abbastanza da mangiare, dicevo loro: ragazzi, ditemi: siete o no meglio curati che in casa vostra? Riflettete e ditemi voi stessi, se sarebbe opportuno di abituarvi qui ad un tenore di vita tale che in seguito, nonostante la vostra solerzia e il vostro lavoro, non giungereste a comprare e a pagare quello di cui sareste abituati qui a godere tutti i giorni. Ovvero vi manca il necessario? Ditelo voi stessi, siete d’avviso, che potrei fare di più per voi, che sarebbe ragionevole e opportuno? Volete che col denaro, di cui dispongo, mi limiti a nutrire 30 o 40 ragazzi, mentre ora, come vedete, ne posso mantenere da 70 a 80? Sarebbe giusto?

Mi comportai nello stesso modo, quando nel villaggio si disse che li trattavo troppo duramente. Appena lo seppi, dissi loro: ragazzi, sapete quanto vi sia affezionato; ma, ditemi, volete che non vi corregga più? Posso ottenere senza schiaffi che perdiate abitudini così profondamente radicate in voi? Forse che senza i miei schiaffi intendereste bene quel che vi dico? Eri presente, amico, li hai intesi gridare: ce ne guardi Iddio, e con quale calore pregarono di non risparmiarli quando facevano il male.

Il loro gran numero non mi permetteva di tollerare quel che avrei voluto sopportare benissimo in un piccolo ambiente familiare; ma ogni volta mostravo loro chiaramente la differenza e facevo appello ad essi stessi, chiedendo loro se nelle circostanze, ch’essi stessi vedevano, si poteva ammettere o tollerare questa o quella cosa. Non facevo mai ricorso con loro alle parole libertà ed eguaglianza; ma in tutto ciò di cui avevano diritto, li mettevo in così piena libertà e «à leur aise» [In francese nel testo (N. di E. C.).]) nei miei riguardi, che il loro respiro di giorno in giorno più libero e più sereno, dava ai loro occhi uno sguardo che, secondo la mia esperienza, soltanto una educazione molto liberale è in grado di suscitare. Ma mi guardavo bene dal disilludere il lampo di quegli occhi. Mi adoperavo ogni giorno di rinvigorire in essi la forza che li faceva indipendenti, senza che i loro occhi angelici si cambiassero così spesso in tane di rospo [Annotazione: Krötenhöhlen (N. di E. C.).].

Questi occhi angelici mi davano un godimento sublime. Non sopportavo neppure fronti aggrottate; le spianavo io stesso. Allora sorridevano e anche fra di loro cercavano di non avere fronti grinzose.
Il loro numero mi porgeva ogni giorno l’occasione di far toccare loro con mano (senza uscire dall’ambito della loro esperienza) che cosa è bello e che cosa brutto, il giusto e l’ingiusto. L’uno e l’altro erano giornalmente altrettanto contagiosi, e nella stessa misura in cui il gran numero dei ragazzi accresceva il pericolo che le molteplici forme del male, di cui gli uni o gli altri si rendevano colpevoli con la loro indisciplina o con falli incoscienti e non premeditati, minassero dal profondo la casa colpendola nella sua essenza, — in questa stessa misura questo gran nu mero di ragazzi mi offriva ogni giorno in sovrabbondanza punti di contatto e occasioni di far meglio fruttare il bene, il caso raro, di radicarlo più a fondo che non mi sarebbe stato possibile con un numero minore di essi.

Anche di questo parlavo francamente coi miei ragazzi. Non dimenticherò più l’impressione che risentirono un giorno in cui, a proposito di un disordine insinuatosi fra essi, dissi loro: ragazzi, accade fra noi come in ogni altra famiglia. Dove ci sono sempre molti ragazzi, la confusione giornaliera e il male che nasce sempre dal disordine, finiscono tosto col costringere anche la madre più debole e negligente ad essere più ragionevole coi suoi figli e ottenere a forza da essi ordine e buona condotta. È per l’appunto quel che accade qui; per quanto io sarei felice di trattarvi alla buona e di chiudere un occhio dinanzi ai vostri falli, non lo posso fare perché siete troppi. Siccome siete tanti e ognuno di voi tenderebbe a perseverare nei difetti e nei vizi che ha contratto, correte il rischio di essere infetti settanta volte da tutte le forme del male e di diventare forse settanta volte più cattivi di quel che sarebbe accaduto a casa vostra. Accade sempre così; in una casa come la nostra non si possono tollerare certe cose le cui cattive conseguenze non attirerebbero l’attenzione, e non disturberebbero in una piccola famiglia. Ma se non voleste sottostare all’ordine, che è necessario nella nostra situazione, la nostra casa non potrebbe reggere e voi ripiombereste nella miseria di un tempo. Pensateci voi stessi, il vostro nutrimento assicurato, i vostri abiti migliori sarebbero stati unicamente un mezzo per rendervi più miserabili di quel che potevate diventare nella fame e nella indigenza; ragazzi, nel mondo l’uomo impara soltanto dal bisogno o dalla persuasione. Quando non si vuole lasciar guidare dalla ragione, pur essendo al riparo dal bisogno, diventa abominevole. Riflettete, se una volta posti al riparo da ogni bisogno, vi abbandonate all’imprevidenza e al capriccio, se non permettete più che agisca su di voi ciò che è vero e buono, che accadrà fatalmente di voi?

In casa vostra avevate pur sempre qualcuno, che vegliava su di voi, e poiché eravate pochi, era facile: e poi un gran bene lo fanno il bisogno e la povertà. Essi in molti casi ci costringono ad essere ragionevoli, anche quando non lo vogliamo. Ma è vero pure l’opposto; se fate il bene per convinzione, indotti che siate stati una volta a fare il bene per bisogno, potete arrivare anche infinitamente più lontano di quel che avreste potuto in casa vostra. Se perseguite volontariamente quel che ora, come allora, costituisce il vostro bene, troverete fra di voi soltanto spinte a farlo e lo vedrete vivere e operare settanta volte fra di voi.

Così parlavo loro spesso, del tutto noncurante di sapere se ognuno capiva ogni parola; ma ero sicuro che tutti subivano l’impressione dell’insieme.

Anche la rappresentazione viva della condizione, in cui si sarebbero fatalmente trovati più tardi faceva loro una grande impressione. Quando commettevano un fallo, mostravo loro dove esso li avrebbe condotti, e chiedevo: non conosci persone che sono detestate per la loro cattiva lingua, per i loro discorsi insolenti, calunniosi? Vorresti essere anche tu, nella tua vecchiaia, un oggetto d’orrore e di disgusto per i tuoi vicini, i tuoi familiari e persino per i tuoi figli? Facevo appello alle loro esperienze per dar loro un’idea sensibile dell’estrema rovina, cui ci conducono i nostri falli, e per dar loro rappresentazioni vive delle conseguenze di ogni forma di bene e specialmente per recare chiaramente alla loro coscienza le opposte conseguenze di una buona educazione e di una educazione mancata. Non conosci uomini che siano infelici per il solo fatto di non essere stati abituati da giovani a meditare e a riflettere? Non conosci persone che potrebbero guadagnare tre o quattro volte tanto, se sapessero soltanto scrivere e leggere, e non ti tocca il cuore il pensiero che, se tu trascurassi ora di apprendere qualche cosa, ti potresti per colpa tua trovare senza un soldo da vecchio ed essere forse di peso ai tuoi figli o forse essere ridotto a vivere di carità?

Anche le considerazioni che seguono facevano profonda impressione sui ragazzi: conosci qualcosa di più grande e di più bello che il dar consiglio ai poveri, aiutare gli uomini che soffrono a superare la loro miseria? Ma ne saresti capace, se non capisci nulla; non saresti costretto, con tutto il tuo buon cuore, a lasciare andare le cose come vanno, perché sei ignorante? Se invece sai molte cose, potrai dare molti buoni consigli, e se comprendi molto, potrai soccorrere molti uomini nei loro bisogni.

In generale ho trovato che concetti grandi e spaziosi sono essenziali e insostituibili per il primo svolgimento di opinioni giuste e di risolutezza di carattere. Questi grandi principi, che abbracciano l’insieme delle nostre disposizioni e delle nostre relazioni, se son posti nell’anima dell’uomo secondo una giusta psicologia, vale a dire con semplicità, con amore e con una forza tranquilla, conducono, per loro stessa natura e necessariamente, l’uomo ad uno stato d’animo benevolo che sarà accessibile al vero e al giusto e centinaia e centinaia di principi secondari subordinati; queste grandi verità colpiscono da se stessi e si radicano profondamente nella conoscenza, anche se essi non pervengono mai a esprimere con parole queste verità. Codesto esprimere con parole le verità di cui ci si vale e secondo le quali si opera, non è di gran lunga così universalmente utile agli uomini come noi immaginiamo nella nostra età indebolita, la quale è già abituata da secoli dalla teoria cristiana e dalle prediche ad un procedimento altrettanto diffuso quanto superficiale di domande e di risposte [Annotazione: L’insegnamento catechistico (N. di E. C.).], e da una generazione è stata sempre più immersa da quelli che si chiamano illuministi nel più miserabile chiacchiericcio. Credo soprattutto che la prima età della riflessione nei ragazzi è confusa da un insegnamento verboso che non è appropriato né alla mentalità dell’educando né alle sue relazioni esterne.

Secondo la mia esperienza tutto dipende da questo, che ogni principio si presenti da sé come vero, attraverso la coscienza intuitiva di esperienze ancorate alle relazioni reali. La verità priva di questo fondamento intuitivo è per loro un mero giuoco molesto e per lo più ancora inadatto alla loro statura.
Una cosa è certa: l’attitudine dell’uomo per il vero ed il giusto nella sua essenza è un senso alto, puro, universale che può essere nutrito dalla semplicità di vedute, aspirazioni e sentimenti comprensivi ed elevati, schivi di parole, che gli danno un tatto molto saldo e molto sicuro della verità e del diritto, senza ch’egli mostri all’esterno molti segni di possedere questa forza interiore ben disciplinata.

E questo ancora è vero: i principi della conoscenza che conducono l’uomo a un sentimento della verità e della giustizia profondamente radicato ma schivo di parole, sono nel suo interno un puro contrappeso alle principali e più rovinose conseguenze di ogni genere di pregiudizi. In uomini di questa fatta, non accadrà mai che i pregiudizi permettano a un infelice e cattivo seme dell’insegnamento di germogliare, e i pregiudizi, e persino l’ignoranza e la superstizione, che non sono certo buoni in sé, non faranno loro mai tutto quel male che fanno e faranno in eterno a coloro che senza amore e senza giustizia blaterano di religione e di diritto.

Questi principi della conoscenza umana sono come oro puro, nei cui riguardi le verità subordinate che ne dipendono devono considerarsi come moneta spicciola. Non posso resistere al pensiero: questi uomini che nuotano e affogano in un mare di mille piccole gocce di verità, mi fanno sempre l’impressione d’un vecchio bottegaio che, arricchitosi a furia di piccoli guadagni, addizionando soldo a soldo, in ultimo si è talmente abituato a rispettare non soltanto la raccolta dei soldi, ma i soldi in sé e per sé, da angustiarsi tanto all’idea di perdere un soldo quanto a quella di smarrire un luigi d’oro.

Quando l’armonia delle attività dell’anima e delle loro inclinazioni è fondata nel calmo esercizio umano del dovere, quando le attrattive superiori delle relazioni umane assaporate nella loro purezza sono vivificate e rese ben salde dal solido possesso di verità alte e semplici, permetti pure che singoli quieti pregiudizi possano sussistere nella massa di questi lumi ancora così limitati ma reali; essi saranno più che controbilanciati dal puro svolgimento e nobilitamento della tua natura, che sarà come se non esistessero, e svaniranno facilmente da sé, come l’ombra nella luce, il giorno che la forza di questi uomini si svilupperà sino al punto richiesto.

I veri vantaggi della conoscenza e del sapere umano consistono per l’umanità nella saldezza dei fondamenti, sui quali si elevano, sui quali riposano. L’uomo che sa molto, ha bisogno più di ogni altro di essere condotto, e con procedimenti più complicati, all’unità di sé con se stesso, all’armonia del suo sapere con le circostanze della sua vita, a uno svolgimento equilibrato di tutte le attività della sua anima. Quando questo non accade, il suo sapere è per lui un fuoco fatuo, che porta lo scompiglio nel più profondo del suo spirito, e al di fuori lo priva dei godimenti essenziali della vita, che un sentimento semplice, diritto, in sé coerente, garantisce al meno evoluto e più comune degli uomini. Ecco, caro amico, il punto di vista per cui considero così importante che questa armonia delle facoltà dell’anima, cui ci avviano la nostra natura e le nostre prime relazioni, non venga sciupata dagli errori dell’arte umana.

Ti ho esposto, amico, il mio modo di vedere sullo spirito domestico di un istituto di educazione e in quale maniera ho tentato di risolvere il problema. Ti voglio far conoscere ancora qualche principio essenziale del mio metodo didattico e del modo di insegnare ai ragazzi.

Non conoscevo ordine, metodo, arte, che non fossero semplici conseguenze della persuasione dei ragazzi che io li amavo. Non volevo conoscerne altri. In tal modo subordinavo anche ciò che facevo apprendere ai ragazzi al punto di vista superiore di stimolare sempre i loro sentimenti più alti e lasciar operare su di essi in tutto il loro vigore le relazioni naturali in cui si trovavano fra loro e sotto le mie cure.

Avevo certamente il libro di lettura del Gedike [Annotazione: Federico Gedike nato a Boberow nel Brandeburgo nel 1754, m. nel 1803. Direttore di ginnasi, membro del Consiglio superiore della istruzione e dell’Accademia delle scienze di Berlino, autore di numerose opere: Aristotele e Basedow (1779), Pedagogia di Lutero (1792), ecc. La sua fama è legata specialmente ai suoi eccellenti testi scolastici e in particolare ai suoi metodi per la lettura, nei quali, rifacendosi ai principi del Basedow, inculcava la necessità di rivolgersi ai sensi e all’immaginazione dei ragazzi prima che alla loro memoria. Notissima la sua opera intitolata Dell’insegnamento della lettura e dì altre materie connesse (1779). Il testo scolastico, cui si riferisce il Pestalozzi, è indubbiamente il Libro per insegnare a leggere ai ragazzi senza A B C e senza compitare (1791) (N. di E. C.). ], ma non ritenevo in sostanza di servirmi di esso più che di altri testi scolastici; difatti consideravo la prima istruzione da impartire a questa folla di ragazzi di età così diversa soprattutto come un mezzo per unirli tutti in una disposizione spirituale che armonizzasse con uno scopo. Vedevo benissimo l’impossibilità di insegnare nella forma di una buona scuola pienamente organizzata.

In generale davo ben poco peso all’imparare, in quanto apprendimento di parole che si devono ritenere, e persino in quanto apprendimento dei concetti che sono designati dalle parole. Miravo propriamente a collegare e a fondere fra di loro insegnamento e lavoro, attività didattica e industriale. Ma potei tanto meno realizzare questo tentativo per il fatto che non ero ancora affatto attrezzato per questo fine, né nei riguardi del personale, né in quelli del lavoro e degli utensili necessari. Soltanto poco tempo prima dello scioglimento qualche ragazzo aveva cominciato a filare. E vedevo pure bene che, prima che si potesse parlare di una simile fusione, bisognava fissare bene, separata e indipendente l’una dall’altra, la cultura elementare dell’imparare e quella del lavorare, e mettere in chiaro la natura speciale e le esigenze di ognuno di questi rami.

Ma già in questo inizio consideravo l’attività lavorativa piuttosto dal punto di vista della esercitazione del corpo al lavoro e al servizio che da quello del guadagno del lavoro. E così pure ritenevo in generale quel che è detto propriamente imparare come un esercizio delle attività dell’anima ed ero d’avviso perciò che l’esercizio dell’attenzione, della riflessione e della salda capacità di ritenere dovessero precedere l’arte del giudicare e di concludere. Le prime devono mettere salde radici se le ultime devono essere salvaguardate dal pericolo di condurre mediante spiegazioni esterne e verbali alla superficialità ed a giudizi pretensiosi e ingannevoli, ciò che considero molto più pericoloso per la felicità e la destinazione degli uomini che non l’ignoranza in mille cose, che però può contare su una salda conoscenza intuitiva delle sue più prossime relazioni essenziali e su un sentimento delle proprie forze semplice e puro, ma solidamente piantato. Credo, all’opposto, che le conoscenze più benefiche per l’umanità hanno in generale questa origine e che si trovano allo stato più puro tra gli uomini in cui il sapere scientifico è più limitato.

Guidato da questi principi, non cercavo dunque tanto all’inizio di far progredire i miei ragazzi nel compitare, nel leggere e nello scrivere, ma piuttosto di sviluppare, con questi esercizi, nel modo più multilatere e attivo possibile le attività della loro anima in generale. Prima che conoscessero il loro a b c, li facevo compitare a memoria e l’intera classe era in grado di compitare a memoria le parole più difficili prima di conoscere le lettere. Si pensi quanta forza di comprensione questo presupponeva in ragazzi di quella fatta!

In principio cominciai col seguire, per le parole che insegnavo loro a compitare, il libro di lettura del Gedike. Più tardi però trovai molto più utile per un primo esercizio generale delle facoltà, far loro combinare cinque volte l’intero alfabeto con le cinque vocali ed insegnare in tal modo a memoria ai ragazzi l’uso perfetto di tutte le sillabe. Farò stampare queste serie e i miei principi di lettura e di scrittura. Tutte le consonanti precedono e seguono tutte le vocali: ab, ba, ec, ce, di, id, fo, of, gu, ug, ecc. Continuai col medesimo metodo a tre lettere: bud, dub, bic, cib, fag, gaf, goh, hog.

Già in queste congiunzioni appaiono dei gruppi molto difficili a pronunziare ed a mandare a memoria: per es.: ig, igm, ek, ekp, lug, ulg, quast, staqu, ev, evk.

Due righe di lettere devono essere imparate a perfezione dai ragazzi, prima di procedere ad una nuova. Nella terza riga hanno luogo combinazioni di quattro e cinque lettere con abbreviazioni corrispondenti; per es.: dud, dude, rek, reken, erk, erken. Muovendo di qui lego ai loro fondamenti parole che procedono da queste radici; per es.: ef, efra, efraim, buc, buce, buce- fal, qua, quak, quaken, afor, aforis, aforisma, mu, muni, munici, municipal, municipalità, ul, ult, ultra, ultramon, ultramontano. Non ci si immagina, come i ragazzi imparano a leggere facil- mente e bene, una volta che hanno impresso nella loro memoria i primi rudimenti della lettura in generale, e i loro organi siano abituati a pronunciarli facilmente. Si chiede loro allora non più di compitare, ma di afferrare sulla carta e di pronunziare di colpo le serie di due, di tre, di quattro lettere come si trovano riunite insieme. Ma non facevo loro vedere ciascuna di queste serie se non quando erano in grado di compitarle perfettamente a memoria e gliele mostravo dapprima scritte, poi stampate, poiché si può combinare con gli esercizi di scrittura una specie di ripetizione del sillabario stampato che è doppiamente utile.

Giunti a leggere le serie scritte dei gruppi primitivi, bastano pochi giorni pei che siano in grado di leggerli a stampa, e pochi giorni ancora per leggerli in caratteri latini.

Per la scrittura seguivo il metodo seguente: indugiare a lungo su tre o quattro lettere che contengono gli elementi di molte altre e formare e comporre con esse delle parole, prima di permettere che essi si provassero ad altre lettere. Appena sapevano scrivere m e a, dovevano scrivere man, e questo sino a quando avessero scritto la parola su una linea perfettamente dritta e le lettere esattamente. Appena sapevano una nuova lettera, passavo subito a una parola che la conteneva, unitamente a quelle che già conoscevano. In questo modo scrivevano già delle parole con un certo grado di perfezione prima che fossero in grado di scrivere la terza parte dell’a b c. Quando i ragazzi hann imparato a scrivere in questo modo soltanto tre lettere, con un notevole grado di precisione e abilità, imparano le altre senza difficoltà.

Avevo percorso con essi i frammenti di geografia e di storia naturale, che contiene il testo del Gedike. Prima ancora di conoscere una sola lettera, essi conoscevano bene a memoria intere serie di nomi di paesi. Per quanto concerne i primi concetti di storia naturale mostravano un tale buon senso nel collegare tutto quello che avevano sperimentato circa il regno animale e vegetale con le parole dotte, che contenevano i concetti generali di codeste loro esperienze, che ero perfettamente persuaso che, col mio modo semplice di procedere e con la mia abilità a trarre in forma generale e rapidamente tutto quanto sapevano già in ogni ramo nell’ambito della loro esperienza, avrei potuto portare a termine con essi un corso ben determinato. Questo corso avrebbe abbracciato, da un lato, l’insieme delle conoscenze che sono essenzialmente utili alla massa degli uomini, d’altra parte avrebbe porto a qualsiasi ragazzo, dotato di speciali attitudini in qualche campo particolare, un numero sufficiente di cognizioni preparatorie per facilitare il progresso ulteriore della sua cultura, senza sottrarre l’insieme allo spirito di semplicità e di limitatezza che conviene alla sua situazione: del resto attenersi a questo criterio psicologico anche per gli adulti, pare pure a me il miglior mezzo per distinguere bene i talenti degli uomini e per promuovere effettivamente ed efficacemente quelli che si rivelano reali.

Dovunque seguivo questo principio: portare alla perfezione quel che i ragazzi imparavano, anche le cose più insignificanti, non tornare mai indietro in nulla, non permettere mai che dimenticassero una parola che avevano appreso; non lasciar loro mai scrivere peggio una lettera che avevano già scritto bene. Ero paziente con i più lenti; ma se qualcuno di essi faceva qualcosa meno bene che in passato, mi mostravo severo.

Il numero e l’ineguaglianza dei ragazzi facilitavano il mio compito. Come un fratello od una sorella più anziani, sotto gli occhi della loro madre, mostrano agevolmente ai più piccoli tutto quel che sanno, e si sentono lieti e fieri di prendere in tal modo il posto della mamma, così i miei ragazzi erano lieti di insegnare agli altri quel che avevano appreso. Si svegliava in loro il sentimento dell’onore, e imparavano doppiamente col fare ridire ad altri ciò che ripetevano loro. Ebbi così presto degli aiutanti e dei collaboratori fra i miei ragazzi stessi. Nei primi giorni facevo loro compitare a memoria qualche parola molto difficile; appena uno di essi ne conosceva una raggruppava intorno a sé dei ragazzi sé dei ragazzi che non la sapevano per insegnargliela. Così fin dall’inizio mi formai degli aiutanti. Ebbi tosto fra i miei ragazzi dei collaboratori che, nell’arte di insegnare ai più deboli quel che costoro non sapevano ancora, progredendo con la nostra istituzione, si sarebbero certamente mostrati più utili, e sotto molteplici aspetti più utili ai bisogni momentanei di essa, di maestri impiegati a questo scopo.

Io stesso imparavo con loro. L’intera istituzione poggiava su basi così semplici, così poco artificiose, che non avrei trovato maestro che non considerasse troppo umiliante insegnare e apprendere a mio modo.

Il mio scopo era di condurre tanto innanzi la semplificazione di tutti i mezzi didattici, che l’uomo più comune potesse pervenire egualmente ad insegnare ai suoi figli, di modo che a poco a poco diventassero quasi superflue le scuole per i primi elementi. Come la madre provvede per prima a nutrire il corpo del suo piccolo, è pure istituita da Dio per nutrire per prima lo spirito di lui, e considero che grandi mali derivino dall’inviare i ragazzi troppo presto a scuola e da tutto quello che è prodotto a forza d’artifizi in ragazzi fuori del focolare domestico. Si avvicina il momento in cui avremo reso talmente semplice il metodo d’insegnamento, che ogni madre, senza aiuto d’altri, sarà in grado di insegnare e potrà in tal modo continuare a progredire anch’essa nell’apprendere. La mia esperienza conferma su questo punto il mio giudizio. Ho veduto nella mia cerchia crescere benissimo ragazzi allevati in questo modo. Sono poi più che persuaso che quando le istituzioni scolastiche saranno collegate energicamente e su base di conoscenza psicologica con le istituzioni del lavoro, verrà fuori necessariamente una generazione che da un lato imparerà per esperienza che quel che si è insegnato finora non esige una decima parte del tempo e degli sforzi che gli si suole consacrare e che, d’altro lato, questo insegnamento, per quanto concerne il tempo, le forze e i mezzi d’istruzione, può coincidere talmente con le esigenze della famiglia, che i genitori comuni cercheranno di mettere in condizione se stessi o qualcuno della loro cerchia casalinga di impartire ciò che la semplificazione dei metodi didattici e l’aumento delle persone completamente istruite renderà sempre più facile [Annotazione: Il Lambruschini considerava questo passo «degno di grande considerazione». Cfr. Scritti politici e d’istruzione pubblica, a cura di A. Gambaro, Firenze, 1937, p. 508 (N. di E. C).].

Per l’avvicinamento di questo felice momento sono molto importanti due mie esperienze. In primo luogo, che è possibile e agevole di insegnare contemporaneamente, conducendoli molto avanti, a un gran numero di ragazzi, anche di età molto diversa; in secondo luogo che, per molte cose, si può istruire questa massa di ragazzi durante il loro stesso lavoro.

Si capisce che questo modo di insegnare deve sembrare un lavoro mnemonico, e per quel che concerne la sua forma esterna deve essere impartito realmente come un lavoro mnemonico.

Ma la memoria, quando procede con conoscenze psicologicamente ben graduate, pone essa stessa in moto le altre attività dell’anima. La memoria, col combinare lettere difficili, promuove l’immaginazione; la memoria, che segue la serie dei numeri, fissa lo spirito sui loro rapporti interni; la memoria, con l’imprimere in sé verità molto complesse, prepara lo spirito a fare attenzione al semplice e al complesso. La memoria, col cogliere la melodia e i canti, sviluppa nell’anima il senso dell’armonia e sentimenti elevati. C’è dunque un’arte di preparare, mediante la sola memoria, i ragazzi ad ogni specie di esercizio spirituale in un modo generale e sicuro.

Il risultato di questi esercizi provocò nei miei ragazzi in generale non soltanto un progresso nella riflessione, ma in modo manifesto anche uno sviluppo dell’insieme delle facoltà dell’anima che dava origine, in generale, ad una disposizione spirituale nella quale vedevo svolgersi in modo multilatere e sicuro i fondamenti della saggezza umana. Tu hai veduto, amico, come i più frivoli si scioglievano in lacrime, come si sviluppava il coraggio dell’innocenza, come si animavano i sentimenti elevati dei più ragionevoli. Ma non farti nessuna illusione! Non sognare ancora ad un’opera compiuta! Momenti della più alta elevazione si alternavano con ore di disordine, di dispiacere e di preoccupazione.

Io stesso ero ben lontano dall’essere sempre uguale a me stesso; tu mi conosci, quando mi avvolgono la cattiveria e lo scherno. Come il verme si insinua nelle piante che crescono rapidamente, così la cattiveria furtiva rodeva le radici profonde della mia opera.

Quel che dava più noia erano gli uomini che gettando un’occhiata sulla immensità del mio carico scorgevano qua e là qualcosa che era in miglior ordine nelle loro camere e nella loro cucina o che non era come in un istituto per cui si sono spese centinaia di migliaia, e si proponevano nella loro saggezza, di darmi consigli e suggerimenti, e se trovavo che una forma di scarpe che usavano per i loro piedi, non era adatta ai miei, mi reputavano incapace di accettare saggi e buoni consigli e arrivavano a sussurrarsi l’un l’altro all’orecchio, che non ci fosse nulla da fare con un uomo di questa fatta, che ne aveva un ramo.

Credimi, amico, la più cordiale comprensione per l’opera mia l’ho trovata presso cappuccini e monache. Poche persone, fatta eccezione di Truttman [Annotazione: Viceprefetto di Arth e commissario governativo nel Basso Unterwald, autore della relazione a Rengger, ministro dell’Interno, sul massacro di Stans. Insieme col Pestalozzi e col curato Businger egli faceva parte del comitato dell’Orfanotrofio. In due relazioni del 14 gennaio e dell’11 febbraio 1795, constata i successi dei metodi pestalozziani (N. di E. C.). ] , presero un attivo interesse alla cosa. Coloro, da cui attendevo di più, erano talmente sommersi nei loro legami e interessi politici, che questa piccola impresa non poteva avere un grande peso a paragone della vasta cerchia della loro attività.

Ecco quali sono stati i miei sogni; sono stato costretto ad abbandonare Stans [Annotazione: L’istituto fu chiuso nel giugno 1799, in seguito all’avvicinarsi dell’armata austrorussa, che aveva battuto Massena alle porte di Zurigo. Si disse, e fu probabilmente un pretesto, per trasformarlo in un lazzaretto (N. di E. C.).]  sul punto in cui credevo di essere così vicino a realizzarli.